Tra i rottami dell’auto sulla quale Albert Camus trovò la morte il 4 gennaio del 1960, fu rinvenuto un manoscritto con correzioni, varianti e cancellature: la stesura originaria e incompiuta de Il primo uomo, sulla quale la figlia Catherine, dopo un meticoloso lavoro filologico, ricostruì il testo pubblicato nel 1994. È una narrazione forte, commovente e autobiografica, che molto ci dice del suo autore, della sua formazione e del suo pensiero. Attraverso le impressioni e le emozioni del protagonista che, nel desiderio di ritrovare il ricordo del padre morto nella prima guerra mondiale, torna in Algeria per incontrare chi l’aveva conosciuto, Camus ripercorre parte della propria vita: l’infanzia povera, le amicizie, le tradizioni, i sogni vissuti in “un anonimato dove non esiste né passato né avvenire”, dai quali emerge la figura di un uomo ideale, quel “primo uomo” che forse potrebbe essere in ciascuno di noi.
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Il film colpisce proprio per l’intensità dell’adesione spirituale a una figura e a una tematica storica tipicamente francese (la tormentata e tormentosa perdita dell’Algeria) che, a parte il momento epico-narrativo de La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, non è certo molto frequentata e presente nel cinema e nella cultura italiana. Certamente, se la rappresentazione rimanesse a livello di un’onesta, fedele ricostruzione storico-biografica, oggi non ci interesserebbe poi molto dello schierarsi di Camus, ovvero di Jacques Cormery, suo alter ego narrativo, nel 1957, in occasione di un viaggio in Algeria (dove era nato nel 1913) sia contro la tesi dell’Algeria francese a tutti i costi, sia contro quella a favore dell’Algeria libera anche con il sangue, per una soluzione di compromesso e pacificazione politica.
Dalle Note di regia
Il primo uomo è l’intervento potente di un grande scrittore sulla tragedia del proprio Paese e del proprio tempo, la confessione che sgombra il campo da ogni sospetto di reticenza e di ambiguità rispetto alla guerra di liberazione algerina, di cui Camus ha faticato a liberarsi. Ma nessuna autobiografia può appassionarci se non tocca in parte anche la nostra vita. Nell’infanzia di Camus ad Algeri ho ritrovato le tracce della mia Calabria nel secondo dopoguerra. A suo padre così ostinatamente cercato si è sovrapposta l’immagine di mio padre lontano e sconosciuto. La nonna e la madre sono diventate le stesse presenze quotidiane di quando ero bambino.