Il grido

Anno:
1957
Durata:
116

Sinossi

Abbandonato dalla sua donna e in cerca di lavoro, un operaio si mette in viaggio assieme alla sua figlioletta. Nel suo vagabondare senza meta per le terre padane, conosce molte donne ma nessuna alla quale valga la pena di legarsi. Infine, lasciata la bambina, torna indietro solo e senza il lavoro alla cui ricerca era partito, per scoprire che la sua donna si è trovata un altro e che i suoi vecchi compagni di lavoro sono in sciopero. Disperato e umiliato, si lancia dalla torre del cantiere dove dovrebbe sorgere un aeroporto.

Lettura non piattamente economicista delle contraddizioni fondamentali della condizione operaia, del conflitto tra forza lavoro e proprietà dei mezzi di produzione, Il grido, attraverso lo sguardo “borghese” di Antonioni, anticipa posizioni critiche che molto più tardi saranno universalmente condivise.

Note a margine

Scritto dallo stesso Michelangelo Antonioni, assieme a Ennio De Concini ed Elio Bartolini, Il grido trasporta sul terreno dell’interiorità e dell’angoscia esistenziale il tema dell’alienazione sociale, derivante dalle contraddizioni connaturate alla condizione proletaria e dalla condanna capitalistica, superando il limite che la grande stagione neorealistica aveva, implicitamente, posto come invalicabile. Qui il personaggio è isolato, condannato a un percorso di progressiva perdita del senso dell’esistenza, rappresentante più che della classe sociale alla quale appartiene, dell’uomo contemporaneo nell’era della tecnica.

Sullo sfondo di un paesaggio particolarmente caro al regista, nel quale affonda la sua cultura e la sua formazione cinematografica, il Polesine, fotografato in bianco e nero dalla maestria di Gianni Di Venanzo, la narrazione, fatta di indugi e ritardi, si snoda con ritmo ineguale, erratica come il movimento senza direzione del protagonista. Lunghi piani sequenza penetranti e insinuanti testimoniano l’impossibilità del mezzo cinematografico di dare veramente conto dell’angoscia che attanaglia il protagonista, come se fosse costretto a esasperare uno sguardo che non riesce a penetrare la dimensione interiore, la sofferenza dell’anima.

Lo sfondo prima familiare, ora divenuto straniero, ospita l’uomo che ormai vi si trova spaesato (Antonioni efficacemente vi colloca i simboli del progresso dell’epoca, le pompe di benzina, le bobine di cavi elettrici, le macchine che lavorano alla costruzione dell’aeroporto…) La cifra antonioniana è in questo film già tutta presente: il rifuggire, tranne che nel tragico finale, da ogni climax drammatico indica chiaramente come il vero dramma più che negli eventi “neorealisticamente narrati”, sia da ricercarsi, metalinguisticamente, nell’impossibilità di una narrazione-rappresentazione del reale. Di qui l’angoscia.

Gran Premio della critica al festival di Locarno, Nastro d’argento alla fotografia di Gianni Di Venanzo. L’attrice Dorian Gray è doppiata da Monica Vitti che attraverso questa collaborazione conobbe il regista col quale avrebbe poi stretto un  sodalizio professionale e sentimentale, e che l’avrebbe lanciata come “musa dell’incomunicabilità”.

Artistic Cast:
Steve Cochran (Aldo) Alida Valli (Irma) Betsy Blair (Elvia) Gabriella Pallotta (Edera) Dorian Gray (Virginia) Lynn Shaw (Andreina) Mirna Girardi (Rosina)
Crew:
regia Michelangelo Antonioni soggetto e sceneggiatura Michelangelo Antonioni Elio Bartolini Ennio De Concini fotografia Gianni Di Venanzo montaggio Eraldo Da Roma musica Giovanni Fusco
Direction notes:
Scritto dallo stesso Michelangelo Antonioni, assieme a Ennio De Concini ed Elio Bartolini, Il grido trasporta sul terreno dell'interiorità e dell'angoscia esistenziale il tema dell'alienazione sociale, derivante dalle contraddizioni connaturate alla condizione proletaria e dalla condanna capitalistica, superando il limite che la grande stagione neorealistica aveva, implicitamente, posto come invalicabile. Qui il personaggio è isolato, condannato a un percorso di progressiva perdita del senso dell'esistenza, rappresentante più che della classe sociale alla quale appartiene, dell'uomo contemporaneo nell'era della tecnica. Sullo sfondo di un paesaggio particolarmente caro al regista, nel quale affonda la sua cultura e la sua formazione cinematografica, il Polesine, fotografato in bianco e nero dalla maestria di Gianni Di Venanzo, la narrazione, fatta di indugi e ritardi, si snoda con ritmo ineguale, erratica come il movimento senza direzione del protagonista. Lunghi piani sequenza penetranti e insinuanti testimoniano l'impossibilità del mezzo cinematografico di dare veramente conto dell'angoscia che attanaglia il protagonista, come se fosse costretto a esasperare uno sguardo che non riesce a penetrare la dimensione interiore, la sofferenza dell'anima. Lo sfondo prima familiare, ora divenuto straniero, ospita l'uomo che ormai vi si trova spaesato (Antonioni efficacemente vi colloca i simboli del progresso dell'epoca, le pompe di benzina, le bobine di cavi elettrici, le macchine che lavorano alla costruzione dell'aeroporto...) La cifra antonioniana è in questo film già tutta presente: il rifuggire, tranne che nel tragico finale, da ogni climax drammatico indica chiaramente come il vero dramma più che negli eventi "neorealisticamente narrati", sia da ricercarsi, metalinguisticamente, nell'impossibilità di una narrazione-rappresentazione del reale. Di qui l'angoscia. Gran Premio della critica al festival di Locarno, Nastro d'argento alla fotografia di Gianni Di Venanzo. L'attrice Dorian Gray è doppiata da Monica Vitti che attraverso questa collaborazione conobbe il regista col quale avrebbe poi stretto un  sodalizio professionale e sentimentale, e che l'avrebbe lanciata come "musa dell'incomunicabilità".

Selezione film

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